Focus

SFIDE

Storia e cultura del rifugio alpino

Luca Gibello

Tuttavia, ieri come quasi analogamente oggi, costruire ben oltre il limite dei boschi, lontano dalle strade, in condizioni climatiche ed ambientali estreme, continua a rappresentare un'ardua quanto avvincente sfida. Il cantiere di un rifugio alpino è sempre organizzato in economia di risorse: economiche (molti interventi sono legati ad iniziative munifiche, con il contributo di manodopera volontaria; tranne i casi limite della nuova Monte Rosa Hütte o del nuovo rifugio del Goûter, i budget sono tendenzialmente limitati), materiali (sul luogo, al massimo, si possono riutilizzare alcune pietre, ma attualmente tutto è trasportato da valle), temporali (si può operare solo nei mesi estivi, con il vincolo dettato dal meteo), spaziali (talvolta, l'esiguità del sito implica l'erezione di veri e propri nidi d'aquila, collocati in base a scelte intuitive, spesso per «prova ed errore»). Diventa dunque fondamentale pianificare attentamente l'aspetto logistico del cantiere; tanto più quando, dagli anni Sessanta del secolo scorso, è diventato sistematico l'impiego dell'elicottero. Di qui la necessità di ridurre, ottimizzare, razionalizzare. Ad esempio, basti pensare alla distribuzione e al dimensionamento degli spazi interni che, ridotti all'essenziale, soprattutto per i bivacchi, rimandano alle teorie dell'Existenzminimum.

1933: cantiere di ampliamento della capanna Campo Tencia in Cantone Ticino, Svizzera (2140 m), originariamente costruita nel 1912 (Archivio CAS)

Per queste ragioni -ma anche perché il manufatto deve saper sopravvivere a se stesso, completamente privo di custodia per almeno sei mesi l'anno (o, nel caso dei bivacchi, perennemente), resistendo ai rigori del clima- il progetto dei rifugi è uno straordinario “laboratorio sperimentale” per mettere a punto soluzioni che, se efficaci, possono poi essere trasferite ai contesti dell'edilizia ordinaria. Si pensi alle varie tecnologie di prefabbricazione a secco, ovvero di costruzione e preassemblaggio a valle, con successivo montaggio in loco, senza l'ausilio di getti in cemento; oppure ai sistemi d'isolamento per massimizzare le prestazioni termoigrometriche dell'involucro; o ancora, ai sistemi di attacco a terra e a quelli per l'autosufficienza energetica e lo smaltimento dei reflui e dei rifiuti (non essendovi collegamenti alle reti infrastrutturali).
Ma, allargando lo sguardo a una lettura storico-sociale, i rifugi rappresentano l'anello terminale di una, spesso prevaricante, azione di antropizzazione: di una “città che sale” alla “conquista” dei monti[1]. Una massiccia colonizzazione delle terre alte che, con la consapevolezza maturata negli ultimi decenni, va governata, soprattutto per quanto concerne il turismo di massa. Così, la vicenda della costruzione dei ricoveri per alpinisti sottende la contrapposizione di due paradigmi: quello “urbano” e quello “altro” (l'idea di natura, di wilderness, di straniamento). Nel corso dell'ultimo secolo e mezzo, a seconda di quale paradigma ha prevalso, sono cambiate le tipologie edilizie, i valori standard, i criteri di accoglienza, i parametri normativi, i modelli di gestione, le aspettative di comfort. 

1932: Armando Melis de Villa, progetto per il nuovo rifugio Vittorio Emanuele II° al Gran Paradiso (2732 m) (Laboratorio di Storia e Beni culturali – Politecnico di Torino)


[1] Lionel Terray, I conquistatori dell'inutile. Dalle Alpi all'Annapurna, Hoepli, Milano 2017 (ed. orig. Gallimard, Parigi 1961).

immagine di copertina: 1892: costruzione della capanna-osservatorio Regina Margherita sulla Punta Gnifetti del Monte Rosa (4559 m) - foto di Vittorio Sella © Fondazione Sella, Biella